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Dall'utente Camiciola
forum PortoErcole.org
post:
http://www.portoercole.org/bbforum/viewtopic.php?p=33491#33491
L’IMPRESA DEL GUARDIA MARINA ELIO SANDRONI
Desidero segnalare l’impresa dell’allora Guardiamarina Elio SANDR0NI. La
medesima, pur risalendo al giugno del 1940 (inizio dell’ultimo conflitto), non
si
riferisce ad un’azione di guerra né ad un particolare episodio d’eroismo, ma ad
una
storia avventurosa e quasi incredibile che ha per protagonista un giovane il cui
coraggio e la cui perizia marinaresca valsero a salvare la vita dell’intero
equipaggio
di un nostro sommergibile.
L’impresa di Sandroni, che ha iniziato la vita marinara dopo il diploma di
Capitano
di lungo corso (conseguito all’Istituto Nautico “Duca degli Abruzzi” di
Catania),
trascende l’epoca e l’ambiente in cui si svolse, per assumere un significato dal
valore permanente, capace d’indicare ai giovani quanto possano in ogni avversa
circostanza la forza del carattere, la perseveranza e la solidarietà verso il
prossimo.
Sandroni, che è mio collega nella grande famiglia marinara, aveva all’epoca 23
anni; è decorato di medaglia d’argento al V.M.
(L’impresa inizia dopo che il sommergibile Macallè affonda in Mar Rosso a
levante
di Porto Sudan di fronte ad un isolotto disabitato che l’intero equipaggio, per
fortuna illeso ma intossicato dal gas fuoruscito dagli impianti di
raffreddamento,
riesce a raggiungere in parte a nuoto, in parte con un battellino ricuperato dal
sommergibile. Il racconto che segue è tratto dalla relazione ufficiale).
Sull’isolotto si forma una strana colonia di persone molte delle quali ancora
inebetite dalle esalazioni di gas. Molti marinai cominciano ad andarsene in
giro per l’isolotto, grande quanto la Piazza S. Marco di Venezia, altri
s’immergono
in acqua per lenire il caldo asfissiante: circa 60° con umidità del 100%. Si
scava
nella sabbia una buca profonda per depositarvi due cassette di bottiglie d’acqua
minerale; vengono improvvisati ripari e tendaletti di fortuna con asciugamani e
sterpi trovati sulla spiaggia per difendersi dal caldo infernale, si designano
gli uomini
da porre a guardia dell’acqua con turni di due ore per ciascuna coppia.
Nel pomeriggio il Comandante Morone e l’Ufficiale in seconda decidono di in_
viare qualcuno con il battellino a remi per tentare di avvicinarsi alla costa
sudanese
e poi raggiungere, costeggiandola, il territorio nazionale per dare l’allarme e
cercare
di organizzare i soccorsi ai naufraghi, rimasti senza cibo né medicinali e con
acqua ormai insufficiente.
Il comando della spedizione viene affidato a SANDRONI; lo accompagneranno
il nostromo di bordo, Nocchiere Torchia, e il timoniere Costagliola.
Con il battellino di salvataggio di legno, delle dimensioni circa di un dinghy,
munito di remi, bussola magnetica, un accumulatore, una carta generale del Mar
Rosso, una busta di tela, un brogliaccio, due matite, alcuni pacchetti di
gallette, un
pezzo di pancetta affumicata e tre bottiglie d’acqua minerale, i tre uomini si
accingono
ad attraversare il tratto di mare compreso fra l’isolotto e la costa sudanese e
poi il successivo tratto costiero fino a raggiungere il territorio eritreo: in
tutto circa
200 miglia da percorrere a remi.
Sull’isolotto di Barr Musa Kebir cominciano i preparativi per attrezzare il
battellino
alla navigazione: una gaffa da utilizzare come alberetto, alcuni pezzi di legno
raccolti
sulla spiaggia da servire come pennone ed una fascia di strapuntino da usare
all’occorrenza come vela. Il Comandante Morone con la carta nautica del Mar
Rosso
spiega al Guardiamarina Sandroni ciò che dovrà fare: raggiungere al più presto
la costa sudanese (in mano agli inglesi), quindi il territorio nazionale e
chiedere
immediatamente soccorsi per i naufraghi che rischiano la morte per la sete, la
fame,
il caldo e i disturbi provocati dalle esalazioni di gas cloruro di metile.
Alle 21.30 del 15 Giugno i tre uomini partono dall’isolotto: Sandroni si mette
subito ai remi e inizia il suo turno di voga di 4 ore. Costagliola si sistema a
prua
accovacciandosi alla meno peggio per il suo turno di riposo. Torchia è al
timone.
Ad evitare di accendere continuamente la luce per la lettura della bussola e il
controllo
della rotta, Sandroni consiglia di prendere come punto di riferimento una
stella dei settori poppieri e bassa sull’orizzonte. Sandroni tiene a precisare
subito
che a costo di qualsiasi sacrificio e nel rispetto delle consegne avute dal
Comandante,
si deve assolutamente raggiungere lo scopo che è quello di salvare i compagni
rimasti sull’isolotto. L’acqua è razionata a due dita ogni 4 ore; i turni sono
divisi
così: 4 ore alla voga, 4 al timone e 4 di riposo. Durante tutta la notte si
voga, ci si
riposa, si sta di guardia al timone e alla bussola; il mare è calmo, spira una
leggera
brezza.
Verso le 10.15 del 16 Sandroni avvista l’isolotto di Tella Kebir; si corregge la
rotta puntando su Ras Asis. C’è una corrente che spinge verso Sud; il mare per
fortuna continua ad essere calmo.
Di tanto in tanto appare la pinna di qualche squalo e ciò sconsiglia
dall’attingere
acqua dal mare per bagnarsi; viene buttato a mare il pezzo di pancetta
affumicata:
mangiandola si sarebbe soltanto aumentata l’arsura. Il sole picchia sempre più
forte,
l’acqua è ulteriormente razionata a due dita ogni 8 ore e si beve da un
bicchierino
d’alluminio sul cui interno è stato inciso un segno per la misura. Costagliola è
sempre molto attento, forte, volenteroso, pieno di fiducia e di slancio
giovanile; da
buon toscano è allegro e vivace ma soprattutto è un buon marinaio.
Il nostromo Torchia, il più anziano dei tre, di carattere piuttosto introverso è
pieno
di dubbi: vuole conoscere i motivi per cui non si avvista ancora la terra e
vorrebbe
conoscere la velocità del battellino.
Sandroni spiega pazientemente che in quel tratto di costa non vi sono rilievi
montuosi
di grande altezza e dato che loro si trovano assai bassi sul livello del mare,
l’orizzonte è alquanto limitato. Circa la velocità del battello essa viene
apprezzata a
circa 2 nodi senza tener conto della deriva e dello scarroccio.
Alle 6,30 del 17 Giugno si avvista la costa in corrispondenza di Ras Asis in
territorio sudanese. Il mare è leggermente mosso e il vento spira da S.W., cioè
in
direzione contraria alla prora. L’acqua scarseggia, le mani e le natiche sono
piene di
vesciche e di piaghe, le labbra spaccate; si avvertono i primi dolorosi disturbi
emorroidali dovuti alla fatica, alla posizione di voga sul legno duro, alla
mancanza
d’acqua, al caldo micidiale e al sole che dardeggia sulla testa senza riparo.
Alle 10 Sandroni decide di prendere terra: ha creduto di vedere un po’ di fumo e
delle capanne, ma è solo effetto d’immaginazione o addirittura d’allucinazione,
perché il fumo non è altro che sabbia sollevata in alto dal vento in forma di
spirali.
I tre uomini comunque toccano terra ma non trovano altro che sabbia, dune e
deserto.
Disperati per la sete, la stanchezza e la delusione riprendono la navigazione.
Ormai non è più rimasto che qualche bicchiere d’acqua: bisogna ridurre ancora le
razioni limitandosi ad inumidire le labbra soltanto ogni 4 ore.
Alle 14.30, aiutato da una leggera brezza, il battellino naviga a vela; la costa
sudanese scorre con esasperante lentezza davanti agli occhi dei tre marinai,
occhi
arrossati dal caldo, dalla stanchezza, dalla veglia e dal sole. La temperatura
si mantiene
sui 60°, ora si procede nuovamente a remi con turni faticosi ed estenuanti ai
remi e al timone. È il 18 Giugno, alle 3 di notte il battellino resta in secca.
Lasciato
Torchia a riposare, Sandroni e Costagliola si allontanano alla ricerca di
fondali che
permettano al mezzo di riprendere la navigazione. Non li trovano e dopo un’ora
di
ricerche tornano indietro: Sandroni propone a Costagliola di inumidirsi le
labbra
introducendo dentro la bottiglia un pezzetto di carta; l’acqua però è finita!
Il vento è contrario e impetuoso, ma il fondale aumenta a poco a poco. Sandroni
e Costagliola a turno vogano come disperati; Torchia sta male, delira, teme che
non
resisterà e continua a ripetere che finiranno tutti in pasto ai pescecani.
Piange e si
lamenta di continuo e non ha più la forza di mettersi ai remi. Spesso Sandroni,
quando è il suo turno di voga, sospinge il battellino con le mani, fondale
permettendolo,
per riposare le braccia ma soprattutto per lenire i bruciori e i dolori
provocati
dalle emorroidi. Anche Costagliola è stanco, sfinito, esausto; ora è preso da
brividi
di freddo, certamente deve avere la febbre. Sandroni gli fa indossare la sua
unica
maglia di lana con maniche lunghe e cerca di confortare Torchia infondendogli
fiducia e coraggio. Alle 3,15 il battellino entra in un piccolo golfo a circa 5
miglia
a NW di Ras Casar. I tre prendono terra, nascondono il battellino fra i canneti
e la
folta vegetazione che sorge sulla spiaggia e si inoltrano nell’interno. Scorgono
alcune
tende abitate da indigeni; un sudanese altissimo e molto robusto, armato di
scimitarra, esce da una tenda; altri appaiano armati allo stesso modo.
Sandroni ordina ai due marinai di non profferire parola alcuna: lascino parlare
lui
solo! I tre uomini si avvicinano cautamente alle tende; Sandroni fa grandi cenni
di
saluto con la mano portata alla fronte, poi alla bocca e gridando: Salam el lek!
Deve
vincere la diffidenza degli indigeni, mostrarsi amico, ottenere un po’ d’acqua
ad
ogni costo. Sandroni articola qualche frase in inglese, in francese e qualche
parola
in arabo, cercando di far capire con larghi gesti delle braccia che sono dei
naufraghi.
Gl’indigeni rimangono impassibili. Alla fine Sandroni, disperato si ricorda
della parola “moia” che in arabo vuol dire acqua e grida: «moia, moia, moia!».
Ne ottengono da un piccolo catino di ferro smaltato, sporco, lurido che un
indigeno
è andato a prendere nella tenda e depone per terra. L’acqua ha un colore
giallastro,
su di essa galleggia uno strato di finissima sabbia. Ad uno ad uno i tre uomini
si
dissetano pur nutrendo forti sospetti sulla potabilità del liquido; dopo qualche
tempo
infatti Sandroni sarà colpito dall’ameba. I tre marinai subito dopo vengono
costretti
a viva forza dai sudanesi a sedersi sulla sabbia. Sono momenti emozionanti e
terribili; i sudanesi confabulano fra di loro, cosa mai staranno tramando? Alla
fine,
come per miracolo, riescono lentamente e pigramente ad alzarsi, fanno finta di
volersi sgranchire le gambe e si allontanano dirigendosi molto cautamente verso
la
spiaggia. Sandroni ogni tanto si volta indietro verso i negri per fare larghi
gesti di
saluto e di ringraziamento con grandi cenni delle mani.
Il battellino viene raggiunto rapidamente: i tre uomini vi saltano dentro e
Costagliola si mette ai remi. Sospinto verso il largo, il battellino riprende la
navigazione,
il ritmo di voga viene aumentato al massimo.
Uscita dal piccolo golfo, la barca riprende la navigazione; il vento è però
contrario,
la velocità ridottissima. Alle 22 il battello rimane ancora una volta in secca.
I tre
uomini ne approfittano per riposarsi un po’ in attesa dell’alta marea. Il 19
Giugno è
un’altra giornata di fatiche disumane, di sofferenze e di ansie.
La speranza di portare a termine la missione è sempre grande; la forza di
volontà
e la tenacia non abbandonano mai, nemmeno per un istante, Sandroni e Costagliola.
Il povero Torchia è in uno stato compassionevole.
Alle 5 una foschia bassa impedisce di distinguere bene la costa. La carta
nautica
è ormai logora e sgualcita, le località e i segni convenzionali non si leggono
più.
Dopo un altro estenuante tratto di navigazione, sempre a remi fra bassi fondali
verso Est, finalmente i due scorgono bene la costa. Si avvista per fortuna un
sambuco
arabo a vela. Avvicinata l’imbarcazione, Sandroni riesce a sapere che il confine
con l’Eritrea non è tanto lontano; allora il battellino si allontana dalla costa
e si
mantiene per precauzione a circa 5 miglia di distanza.
Il 22 Giugno è l’ultimo giorno di questa odissea! Durante la notte la barca
naviga
verso terra: all’alba viene però sospinta dal vento verso un altro bassofondo. I
tre
uomini spingono a turno il battello a mano dirigendosi verso sud e camminando
sul
fondo cosparso di sassi e ricci. Sono le 6 circa quando, finalmente fuori dalle
secche,
il battello ancora a forza di remi punta decisamente verso la costa che è quella
Eritrea. Una grande emozione coglie i tre uomini quando sulla spiaggia scorgono
una pattuglia di Ascari dell’esercito italiano. Sandroni si fa riconoscere
agitando un
corpetto bianco e, dopo aver fatto arenare il battellino a 100 metri dalla
spiaggia,
mette piede a terra . Gli ascari e il Buluk Basci che li comanda si prodigano in
mille
modi, fornendo soprattutto the con latte di cammella dolcificato. Purtroppo gli
ascari
non dispongono di alcun mezzo di comunicazione con il più vicino distaccamento
che è quello di Mersa Taclai.
Ancora una volta bisogna quindi riprendere il mare, ma prima viene consegnato
al Buluk Basci un messaggio in italiano sul quale sono precisate le coordinate
geografiche
dell’isolotto e la notizia che su di esso ci sono da 5 giorni i naufraghi del
sommergibile Macallè. Tale messaggio dovrà essere recapitato da un cammelliere a
Mersa Taclai il più presto possibile. Dal confine a quella località ci sono 30
miglia;
Sandroni decide di riprendere la navigazione anche se il mare è grosso e il
vento
spira da NW. La navigazione alla vela è difficile e pericolosa per un battello
così
piccolo, ma è veloce. Fece distendere sul pagliolo dell’imbarcazione i due
marinai,
per aumentare la stabilità, e con il remo legato all’anello dello specchio di
poppa, a
mo’ di timone, dirige verso SE, in direzione di Taclai. La vela formata dalla
fascia
di strapuntino, una maglia e un asciugamano porta bene: la barca corre veloce
con
baffi di schiuma!
Finalmente intorno alle ore 15 il piccolo faro di Mersa Taclai è in vista;
esultante
e felice Sandroni manovra per prendere terra, ma c’è un’ultima difficoltà da
superare.
Una scogliera a fior d’acqua si trova proprio davanti a Mersa Taclai, un’ondata
aiuta il battello a scavalcarla, ma sulla parte poppiera della scafo si produce
una
larga falla. Si provvede in qualche modo a tamponarla e si riprende la
navigazione
verso terra, puntando sulla spiaggia. Sulla battigia i tre uomini sono accolti
da alcuni
ascari armati con moschetto puntato: Sandroni è a torso nudo con un paio di
pantaloncini corti legati con una cordicella, dice di essere un ufficiale della
Marina
Italiana e prega di essere subito accompagnato dal Comandante della stazione di
vedetta.
Il Tenente di Artiglieria Curelli si prodiga per fornire ogni assistenza ai tre
uomini;
anche da Taclai però non si può lanciare il messaggio di soccorso. Tre
cammellieri
partono per tre località vicine: Cavet, Alghena e Gheb con l’ordine di inoltrare
con
la massima urgenza possibile un messaggio diretto al Comando Superiore
dell’Africa
Orientale di Massaua.
Sandroni, Costagliola e Torchia sono sfiniti dalla fatica; quando Sandroni si
presenta
al Ten. Cutrelli, questi gli chiede chi sia: «Sono il Guardiamarina Sandroni,
Ufficiale di rotta del Smg. Macallè affondato davanti all’isolotto di Bari Musa
Kebir. Avvertite subito Massaua con la massima urgenza, tutto l’equipaggio
attende
dal 15 Giugno di essere salvato».
I tre uomini vengono medicati e rifocillati; non riescono a reggersi bene sulle
gambe, ma hanno 1’orgoglio e la gioia d’aver portato a termine la missione loro
affidata.
Il 22 Giugno atterra sulla piccola pista di fortuna un aereo italiano che
riparte
subito dopo aver imbarcato Sandroni coi suoi due marinai: arrivati a Massaua
troveranno
un’ambulanza che qualche minuto più tardi ne consentirà il ricovero in
ospedale. La penosa Odissea è finita!
Nel frattempo un aereo sorvola l’isolotto dei naufraghi ormai giunti allo stremo
e
lancia abbondanti rifornimenti di cibo, acqua e vestiario. Più tardi il
Sommergibile
Guglielmotti imbarcherà i superstiti, portandoli definitivamente in salvo in
territorio
nazionale.
Si addensano le nubi della guerra sul mare e non si conosce la sorte dei
singoli,
ma intanto grazie all’impresa dei tre marinai e soprattutto del giovane e
coraggioso
Sandroni, vero protagonista di questa straordinaria avventura, riabbracceranno
le
loro famiglie.
Oggi Sandroni, che la Marina ha decorato di Medaglia d’Argento al V.M., ha il
grado di Contrammiraglio e vive a Venezia.
Il Nocchiere Costagliola vive a Porto Ercole, mentre Torchia purtroppo non è più
dio
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